mercoledì 31 dicembre 2008

I 150 ragazzini di Lampedusa: chiusi nel centro da settimane

IL CORRIERE DELLA SERA

LAMPEDUSA — «Non si può sequestrargli il pallone?» chiede la donna che spazza il cortile. «No — risponde il direttore — perché?». «Perché continua ad arrivarmi in testa». E proprio in quel momento, un ragazzino che corre palla al piede per il centro di accoglienza quasi travolge un poliziotto.

Dall'altra parte dello spiazzo ci sono una quindicina di materassi per terra. Un gruppo di giovanissimi egiziani domenica scorsa ha passato la notte lì, all'aperto. «Fanno una sorta di sciopero del sonno perché l'attesa per andare in casa-famiglia è lunga» spiega il direttore del centro, Federico Miragliotta. Ha 30 anni e con una squadra di coetanei governa la struttura di accoglienza più complicata d'Italia. In questi giorni di emergenza ha lavorato anche in cucina, alla macchina sigillatrice, confezionando piatti di pastasciutta. Insomma ci mette passione, ma per il problema dei «minori non accompagnati» chiusi qui dentro non può fare molto: le case-famiglia siciliane, le sole in cui i ragazzi che sbarcano a Lampedusa possono essere ospitati, sono piene. Anzi, sovraffollate. Ce ne sono 25, per legge dovrebbero tenere non più di 10 giovani ma spesso ne accolgono 50. Trovare posti è difficile e alcuni minori aspettano da settimane.

Ieri si è riusciti a farne partire 43. Secondo Save the Children, che lavora all'interno del centro lampedusano e da tempo chiede che il sistema di accoglienza dei minori si allarghi a tutta Italia, sull'isola ne restano 153. Vivono assieme a un centinaio di donne nell'area più vicina al cancello d'ingresso, che in teoria dovrebbe contenere 70 persone. Mangiano all'aria aperta, seduti qua e là, o dentro una tenda di plastica dove è finito chi non entrava nei container. La mensa è piccola e da tempo è adibita a «laboratorio di confezione pasti». Lo chef Stefano Signorino, 29 anni, ha lavorato a Londra e in Grecia, in alberghi e ristoranti. Ora fa da mangiare per gli immigrati: tra il 26 e il 29 dicembre ha sfornato una media di 6 mila piatti al giorno. Vive circondato da bancali colmi di latte di ceci e fagioli, torri alte tre metri fatte di casse piene di frutta. Annuncia: «Stasera uova». E indica dieci cartoni da 360 uova l'uno. La cella-frigo è un camion che in passato trasportava surgelati. «Il motore non va quasi più — dice — ma il frigo sì, e a noi serve anche da fermo».

In questo posto a metà tra un piccolo paese e un campo profughi, è bastato che per un giorno, domenica scorsa, il camion della nettezza urbana non passasse per veder spuntare cumuli di rifiuti. Del resto, la popolazione del centro per lunghi periodi dell'anno non scende sotto le 1.000 persone: costrette a vivere a contatto di gomito e a dividere 80 bagni e 90 docce. Ci sono panni stesi sulle ringhiere, gente affacciata ai ballatoi, e c'è un numero impressionante di ragazzi. In media hanno 16 o 17 anni, ma alcuni sono più piccoli. «Vederli fa venire l'angoscia» dice un funzionario del Viminale. Poi cita papa Ratzinger. «Qui si impara a lavorare con umiltà, come servi nella vigna del Signore. Pensando che l'"altro" è una persona. E queste, per la maggior parte, sono brave persone». I numeri della Questura di Agrigento dicono che, su circa 31 mila arrivi nel 2008, a Lampedusa la polizia ha arrestato (o fermato) 322 persone; 138 sono presunti scafisti. I richiedenti asilo — quelli veri, che ne hanno diritto, non chi «ci prova» — sono molti di più: nel 2007 una persona su 3 fra quelle sbarcate qui ha fatto domanda, e 1 su 5 ha ricevuto protezione dallo Stato.
L'Italia vista da Lampedusa sembra un Paese sottosopra: non è un fatto geografico, è che le contraddizioni su questa isoletta acquistano evidenza. Quaggiù, in uno scenario da Far West mediterraneo, uomini in divisa si fanno onore uscendo con qualunque mare per salvare vite umane. Le vite di persone che poi, spesso, sono trattate come «un problema».

Il centro di accoglienza, che per anni è stato indicato come una vergogna d'Italia, è incasinato ma è cambiato in meglio. La nuova sede è più gestibile e (soprattutto se gli ospiti non sono 1.600) si fa di tutto per ricevere dignitosamente uomini e donne che poi magari verranno espulsi, non se ne andranno, diventeranno «clandestini», e forse un giorno «riemergeranno» a Brescia, in Toscana, o a Treviso, con un lavoro normale. Per ora stanno ammassati a centinaia dietro le grate che delimitano la zona destinata agli adulti maschi. La polizia li sposta a gruppi. Una colonna parte per il trasferimento verso i Cie e incrocia le schiere dei migranti in entrata, i nuovi venuti. Quindici di loro, dopo la visita medica, restano in infermeria: prima che si mescolino con gli altri ospiti, i dottori devono liberarli dalle piattole. Ogni persona che mette piede qui dentro passa dalle mani di Carlo o Giuseppe, i due medici, entrambi specialisti in anestesia. Li affiancano due infermieri, che fanno turni di 7 giorni consecutivi «h-24», e un team dell'Istituto nazionale per la promozione della salute dei migranti e la lotta alle malattie della povertà: c'è una dermatologa, una psicologa. Si chiama Daria e i ragazzi la corteggiano con una canzone: «Mia mia tabiba navsia», vuol dire «la psicologa è bella».

I migranti le hanno raccontato centinaia di storie. Alcune hanno il lieto fine: «Un nigeriano sbarcato qui chiese se mesi prima era passata una donna incinta; sua moglie. La polizia l'ha rintracciata in una casa per giovani madri di Pescara e lui ha potuto conoscere sua figlia». Oppure Tatù, «il parrucchiere trans tunisino, scappato dall'Africa con le due ragazze che nel suo salone facevano shampoo e tinte. L'Italia gli ha dato asilo e Tatù qui al centro suggeriva alle sue colleghe di presentarsi come una coppia di lesbiche per non essere respinte». Altre sono storie drammatiche: c'è chi in Libia ha visto i trafficanti di uomini picchiare o uccidere un compagno di viaggio. E chi racconta di naufragi mai entrati nelle statistiche: «Trecento sono morti in questi giorni» dice Hammami. È tunisino, nel 2002 ha sposato una ragazza di Padova e in Veneto lavorava fino all'estate scorsa quando, per una leggerezza sulla durata del permesso di soggiorno nel corso di un viaggio al suo Paese, è ridiventato clandestino. Sta appoggiato a un container sul quale è appeso un disegno: una barca circondata dai delfini, con sopra un elicottero e dentro i migranti bambini.

Mario Porqueddu
31 dicembre 2008

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

Di male in peggio se con l'attuale granitica maggioranza il problema esiste ancora !
Ma tanto, il Berlusca ha altro per la mente, vuole essere chiamato Sua Bassezza Reale !