giovedì 30 luglio 2009

Federalismo all'italiana - un paradosso


30/7/2009
LUIGI LA SPINA


Dicono che bisogna essere ottimisti a tutti i costi. Allora, prendiamo la situazione dall’unico effetto positivo. La polemica sull’identità italiana, esplosa per le tentazioni sul «partito del Sud», per le provocazioni leghiste sulla scuola, per le esitazioni sui finanziamenti per i 150 anni dell’unità d’Italia, hanno finalmente fatto uscire dall’ipocrisia, dalla reticenza, dall’ambiguità una questione fondamentale per il nostro Paese: come sia difficile e pieno di rischi l’esperimento di costruire uno Stato federale con un processo contrario a quello normale. Cioè, non per aggregazione, ma per disaggregazione.

Tranne qualche rara eccezione, infatti, il riconoscimento di comuni interessi o il desiderio di rafforzare le difese contro un nemico lontano hanno indotto Stati o regioni a stringersi in un patto federale. Così è stata, in Europa, l’esperienza della Germania o della Svizzera. Così si è costituito il maggiore Stato federale del mondo, gli Stati Uniti d’America.

Molto raramente la strada è stata percorsa al contrario. Si potrebbe citare, forse, l’esempio della Spagna post-franchista, se il paragone con l’Italia non fosse inficiato, tra l’altro, da una differenza fondamentale: il paese iberico è stato unificato alla fine del XV secolo in un impero tra i più potenti del mondo, il nostro festeggia, appunto, solo i 150 di vita.

Così, questo arduo passaggio da uno stato centralista a una struttura federale è ulteriormente complicato dall’evidente fragilità di una coscienza nazionale illanguidita nella popolazione e sostanzialmente assente nella classe politica a cui è toccato in sorte di condurre questa trasformazione. Tramontati i partiti di ispirazione risorgimentale, già sopravvissuti stentatamente dopo la seconda guerra mondiale in una posizione di estrema minoranza, si sono estinti anche quelli che avevano costruito l’Italia repubblicana: i democristiani, i comunisti, i socialisti. Gli eredi, in realtà, non sentono la costituzione dell’Italia come elemento fondante della loro ragione sociale: il partito di Berlusconi ne ha utilizzato il nome soprattutto per l’effetto di aggregazione emotiva dei suoi militanti, da tifo calcistico. Il Pd sventola il tricolore perché è l’unica bandiera che unifica quella rossa, ormai impresentabile, e quella scudocrociata, ormai dimenticata.

La realtà italiana d’oggi, nel processo federalista, può essere riassunta molto semplicemente: la sinistra si è sostanzialmente messa fuori gioco, attraverso una lotta intestina per la leadership che la sta emarginando da qualsiasi vera e sensibile influenza sulla politica nazionale. Sulla scena, allora, conduce la danza la Lega, con una abile strategia di avanzate provocatorie e di ritirate opportunistiche. Il Pdl reagisce debolmente all’azione leghista, con il rischio di una spaccatura interna tra nord e sud che la mediazione di Berlusconi fatica sempre di più a mascherare.

Il partito di Bossi, con una certa lucidità strategica, bisogna ammetterlo, punta a scardinare i capisaldi fondamentali sui quali, nei fatti, è stata costruito lo Stato italiano in questi 150 anni di esistenza: l’esercito, la scuola pubblica, la lingua. Tutti sanno, per esperienza o per un minimo di conoscenza storica, che quel poco o tanto di coscienza nazionale esistente nel nostro paese è stato ottenuto dalla leva militare obbligatoria, dalla riforma crociana e gentiliana dell’istruzione e dalla Tv. La prima ha ibridato, per la prima volta nel secolo scorso, i nostri giovani su tutto il territorio. La seconda ha unito le culture localistiche in una retorica unitaria. La terza è stata capace di estendere l’italiano alla grande maggioranza dei cittadini.

Non è casuale, allora, che le offensive leghiste si concentrino su questi tre campi. Con la negazione di un ruolo internazionale del nostro esercito, con il tentativo di regionalizzare la scuola, con il desiderio di imporre, nella tv pubblica, una riscrittura della storia in chiave antiunitaria.

Quello che più colpisce, di fronte allafiacca reazione, è la confusione intellettuale, l’incertezza morale e politica di chi, almeno a parole, dice di non condividere questo piano disgregativo. Dopo la proposta leghista di un ritiro delle nostre truppe dall’Afghanistan, anche l’accenno di Berlusconi alla necessità di una exit strategy, se non afferma una ovvietà, può essere considerato un sintomo di questo atteggiamento difensivo e sostanzialmente cedevole. Ma l’ultimo esempio, quello più clamoroso, è la risposta della Gelmini sull’emendamento leghista proposto in commissione sulla scuola. Esclusa, per fortuna, la follia del test di dialetto per gli insegnanti, il ministro si dichiara, però, sostanzialmente favorevole a una specie di regionalizzazione dei professori. Il responsabile dell’istruzione pubblica dovrebbe apprezzare, invece, il valore di uno scambio culturale e umano tra allievo e docente provenienti da parti diverse del nostro Paese. Anzi, se non ci fossero evidenti problemi economici e familiari, andrebbe scoraggiata e non incentivata l’assimilazione regionalistica di chi sta sulla cattedra e di chi sta sotto. In tempi di crescente immigrazione multietnica, è davvero deprimente dover parlare ancora di accenti diversi nel pronunciare la nostra lingua. Perché nella scuola italiana, come sappiamo tutti, il problema è la qualità degli insegnanti, non il loro luogo di nascita.

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