sabato 31 ottobre 2009

Montanelli, antifascista rifiutato


C'è una scena madre nell’inatteso e inedito ritratto autobiografico di In­dro Montanelli che la casa editrice Le Lettere manda in libreria martedì nella collana Il salotto di Clio con il titolo Le passioni di un anarco conservatore (prefazione di Francesco Perfetti, pagine 88, 9,50 euro). È l’episo­dio centrale per capire la vita e la visione storica che del Novecento ebbe il nostro maggiore gior­nalista.

Arrivato in Svizzera attraverso la frontie­ra di Bellinzona, nell’agosto 1944, dopo l’evasio­ne dal carcere di San Vittore per fuggire dalla condanna a morte, venne ac­colto con grande freddezza nel circolo dei fuorusciti. «In quella fine del 1944 i tem­pi erano davvero duri, so­prattutto in Italia, e capisco che anche i fuorusciti avesse­ro i nervi a fior di pelle. Mi trattarono con sospetto, qualcuno addirittura si spin­se ad accusarmi di 'apologia di fascismo'. A me, che ave­vo appena rischiato la pelle, quell’accusa giunse davvero inaspettata. Poi capii: erano loro che non capivano, non potevano, che noi giovani, da soli, avevamo fatto nasce­re, dal di dentro del fasci­smo, un altro antifascismo, ben diverso da quello di quanti erano andati in esi­lio». Questa confessione è il nu­cleo centrale della lunga e appassionante intervista, che ci restituisce un Montanelli in tutto il suo sti­le e carattere, realizzata da Marcello Staglieno nel maggio 2000. Quel dialogo doveva fare da in­troduzione ai Diari 1945-1950 di un’altra grande penna del Novecento, Giovanni Ansaldo, con cui Montanelli aveva collaborato alla redazione di Omnibus, nella casa editrice Longanesi e nell’avventura del primo Borghese, quando un gruppo di intellettuali inseguiva il sogno di una destra normale. Una destra che aveva come numi tutelari Quintino Sella e Max Weber. Niente a che fare con la linea missina che il settimanale avrebbe poi assunto sotto la direzione di Mario Tedeschi.

Dopo aver fatto la lunga intervista e averla sottoposta anche all’approvazione del figlio di Ansaldo, Giovanni Battista, Montanelli si tirò indietro, ricordando una norma del contratto che lo legava alla Rizzoli: non poteva pubblicare per altri editori testi memorialistici. Così pregò l’amico Staglieno, che per anni aveva diretto le pagine culturali del suo Giornale, di lasciar perdere. L’intervista rimase inedita e i Diari di Ansaldo uscirono nel 2003 dal Mulino con un singolare testo introduttivo: la memoria scritta che lo stes­so Ansaldo aveva reso alla polizia italiana, quan­do fu arrestato al ritorno in Italia dalla prigionia in Germania.

«Il tempo delle chimere» aveva definito An­saldo il primo quinquennio del secondo dopo­guerra. Montanelli condivide il giudizio dello scrittore e giornalista genovese, che reputa il principe dei memorialisti. Un conservatore che era arrivato al fascismo quando questo era diven­tato regime e si era identificato con lo Stato, do­po un’iniziale opposizione dalle colonne della Rivoluzione Liberale e il confino nel 1927 nel­l’isola di Lipari. Un fascista atipico, come lo era diventato, per motivi e in modi diversi, il più gio­vane Montanelli. Attraverso il racconto dell’amicizia con Ansal­do («perenne conservatore» che faceva soggezio­ne allo stesso Mussolini), con Berto Ricci, di cui era stato collaboratore al gruppo dell’Universa­le dove si coltivava l’utopia di un «italiano nuo­vo», e soprattutto con il geniale Leo Longanesi («esempio — rarissimo in Italia — di uomo indi­pendente», «fosse stato vivo nel ’74, non ho dub­bi che a dirigere 'il Giornale' sarebbe stato lui»), Montanelli traccia la propria autobiografia. Dalla giovanile adesione al fascismo e all’avventura in Africa, da cui nacque XX battaglione eritreo, alla precoce disillusione per il regime, poi testimo­niata in Qui non riposano.

Che Montanelli non fosse proprio in linea con la retorica di regime lo aveva dimostrato già nella corrispondenza per il Messaggero dalla Spagna, definendo la batta­glia di Santander «una lunga passeggiata milita­re con un solo nemico: il caldo». Una battuta che gli costò la radiazione dal Pnf, ma che non inter­ruppe la sua carriera, grazie soprattutto alla sti­ma del direttore del Corriere della Sera, Aldo Borelli. Il primo servizio per il Corriere fu dal­l’Albania, ribattezzata «Grandu­cato di Toscana» per via degli «investimenti che vi avevano fatto Ciano, Benini e altri fasci­sti livornesi». Poi i viaggi in Estonia, Lettonia, Lituania, Fin­landia durante il conflitto con l’Urss («le mie corrispondenze da Helsinki, tutte a favore dei finlandesi, entusiasmarono gli italiani»), Norvegia e Svezia. «A Stoccolma — racconta Monta­nelli — unico straniero invitato a un banchetto di giornalisti an­glo-francesi per festeggiare l’av­vento al potere del 'giornalista' Churchill, ricevetti una propo­sta che avrebbe potuto cambiar­mi il destino: lascia l’Italia, rifu­giati a Londra e collabora alla propaganda antifascista... Rifiu­tai e non me ne pento: anche se poi, dopo i rimproveri ricevuti in Svizzera nel 1944, a Milano a fine giugno 1945 qualcuno che era venuto con gli americani a bombardare le città italiane ebbe la faccia tosta di rinfacciarmelo...».

Torniamo alla scena madre in Svizzera davanti «al Sant’Uffizio di stampo azionista»: «Ch’io fos­si scampato alla fucilazione nazista poco impor­tava, avevo il difetto di esistere, di essere genera­zionalmente cresciuto nel ventennio. E nessuno voleva certo ricordare, in quello strisciante neo­conformismo, che io mai gradito alla gerarchia fascista, non lo ero stato soprattutto durante la Repubblica di Salò». In una puntuale appendice all’intervista, Mar­cello Staglieno contesta i sospetti avanzati da al­cuni biografi del grande giornalista sulla reale esistenza della sentenza di condanna a morte e sull’effettiva presenza di Montanelli in piazzale Loreto il 29 aprile 1945, come testimone della «macelleria messicana». Veleni, cui rispondono i documenti.

Dino Messina
05 ottobre 2009

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