giovedì 30 dicembre 2010

“Dalemonne” al Lingotto


di Paolo Flores d’Arcais

D’Alema ha fatto la sua scelta: con Marchionne e contro la Fiom. Con qualche se e qualche ma, come è nello stile slalomistico della casta Pd, ma la sostanza non cambia. Si tratta di un vero e proprio cambiamento di fronte, che rischia di “fare epoca” certificando la definitiva morte del Pd, perché l’inciucio con Marchionne nel quale D’Alema trascina il partito (Bersani seguirà?) ha un sapore strategico, molto più grave perfino dei tanti inciuci “tattici” (comunque devastanti) con Berlusconi.

Anche il diktat di Marchionne, servilmente e prontamente firmato da Uil e Fim, certamente farà epoca, come hanno prontamente e servilmente gorgheggiato gli aedi di regime. Si tratta di capire di quale “epoca” si tratti. A giudicare senza pregiudizi, si tratta in campo sociale dell’analogo rappresentato dalle leggi berlusconiane di bavaglio ai giornalisti e camicia di forza ai magistrati, fin qui fermate dalla sollevazione popolare della società civile. Quei disegni di legge, che il governo non ha rinunciato a far approvare, segnano un salto di qualità verso approdi specificamente fascisti dell’attuale regime. Un equivalente funzionale e soft (soft?) di fascismo risulta anche il diktat di Marchionne. Se qualcuno ritiene il rilievo eccessivo, si accomodi a considerare le seguenti e modeste verità di fatto.

IL DIKTAT marchionnesco prevede che

1) non vi saranno più rappresentanze elette dei (dai) lavoratori, ma solo nominate dai sindacati che firmano l’accordo, e che

2) i lavoratori che scioperino anche contro un solo aspetto dell’accordo possano essere licenziati.

Queste misure costituiscono nel loro insieme un quadro di (non) diritti che negli oltre sessant’anni di vita della Repubblica non era stato mai ventilato, neppure in via ipotetica, neppure dalle forze più retrive della politica e dell’imprenditoria. Per trovare un precedente bisogna risalire agli anni del fascismo.

Riassumiamo i fatti storici.

Nell’immediato dopoguerra, dopo la rottura dell’unità sindacale, i lavoratori eleggono in fabbrica i loro rappresentanti nelle “Commissioni Interne”, su liste sindacali in concorrenza. Lungo gli anni settanta e fino a quasi la metà degli anni ottanta, invece, in un clima di unità sindacale dal basso, imposta dalle lotte del ’68 e del ’69, i rappresentanti operai vengono eletti su scheda bianca, senza sigle sindacali, votando per gruppi o reparti “omogenei” direttamente i nomi dei compagni di lavoro che riscuotono la maggiore fiducia. Con la nuova rottura dell’unità sindacale si torna a rappresentanze elette su liste di sigle sindacali concorrenti, che abbiano firmato accordi contrattuali o vi si siano opposti (anche i Cobas insomma).

Lo “Statuto dei lavoratori” del 1970 parla di rappresentanze sindacali in termini volutamente generici, proprio perché non intende predeterminare per legge quale delle due forme di elezione vada privilegiata, ma intende come ovvio l’eguale diritto di tutti i lavoratori ad essere rappresentati. Quanto al diritto di sciopero, esso è tutelato costituzionalmente (art. 40) “nell’ambito delle leggi che lo regolano”, e dunque non può essere in alcun modo limitato da accordi privati. E la legge oggi lo limita solo in specifici casi, esigendo preavvisi e/o esenzioni per i servizi pubblici irrinunciabili.

Dunque, neppure ai tempi delle più dure repressioni antioperaie, che in campo padronale avevano il volto di Valletta e dei reparti-confino per gli attivisti Fiom, e in campo politico il volto di Mario Scelba e della violenza della “Celere”, era stato mai messo in discussione l’ovvio principio che tutti i sindacati (anzi tutti gli operai) hanno diritto a dar vita alle rappresentanze dei lavoratori, perché altrimenti sarebbero “rappresentanze” non rappresentative.

Per ritrovare un analogo al diktat marchionnesco bisogna infatti risalire al 2 ottobre 1925, al diktat di Palazzo Vidoni con cui Mussolini, il padronato e i sindacati fascisti firmavano la cancellazione delle “Commissioni Interne”, sostituite dai “fiduciari” di regime (equivalente “sindacale” dei capocaseggiato). Non c’è dunque nessuna esagerazione retorica nell’allarme che i dirigenti Fiom hanno lanciato, ricordando questi precedenti, e invocando lo sciopero generale contro misure che non solo calpestano la Costituzione, ma che di questo “strame della Costituzione” intendono fare il modello delle future relazioni industriali.

Quello che colpisce e lascia anzi allibiti, semmai, è la mancanza di una risposta anche minimamente adeguata, da parte di forze che si dicono democratiche, e che verbalmente presentano rituali omaggi alla Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza. Parliamo del Pd, dove numerose sono le voci di servo encomio alla “voluntas Fiat”, e comunque maggioritarie quelle né carne né pesce, nella migliore tradizione di Ponzio Pilato, e non vi è un solo leader di spicco che abbia preso posizione netta a fianco della Fiom. Ma parliamo anche, e in questo caso soprattutto, della Cgil: non si capisce davvero cosa debba ancora accadere, in questo sciagurato paese, perché si ritenga necessario uno sciopero generale, se non bastano neppure misure antioperaie che hanno antecedenti solo nel fascismo.

E PARLIAMO anche, purtroppo, di una società civile che è stata ben altrimenti energica e pronta nel rispondere alla volontà di fascistizzazione in tema di giustizia e di informazione, e che invece sembra neghittosa di fronte a questa seconda ganascia della tenaglia di fascistizzazione del paese. Dimenticando che sulla distruzione delle libertà e dei diritti dei lavoratori è già passata una volta la distruzione delle libertà e dei diritti di tutti i cittadini. Ecco perché la sollevazione morale della società civile a fianco dei metalmeccanici Fiom è oggi il dovere più urgente, e la cartina di tornasole della capacità di resistere alle lusinghe e alle violenze del fascismo postmoderno.

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