mercoledì 29 dicembre 2010

Il lavoro artigianale di Stefano Zecchi


di Francesca Coin*

Ogni tanto dimentico che ai tempi della seconda guerra mondiale mio nonno era più o meno convintamente fascista. Ora ha quasi cent’anni e l’altra sera a cena ha posto una domanda. “Ti chiedo una cosa sola”, ha detto, dopo aver ascoltato in silenzio la conversazione che per due ore discuteva il potenziale delle proteste studentesche degli ultimi mesi. La sua domanda era rivolta a coloro che hanno attraversato le piazze il 14 dicembre a Roma. “La sentenza dei giudici (che non è ancora stata emessa) è giusta?” “Rilasciare dei criminali è giusto?” Questa era la sua domanda.

Si è torto lo stomaco già a me, dunque se possono seguano oltre i lettori. Aveva gli occhi rossi e puntava il dito come i patriarchi ai peccatori (mio nonno d’altro canto è un fervido uomo di chiesa). Mi colpiva l’inflessibilità delle sue conclusioni, l’autorità irata, l’assenza di consapevolezza sociale o di sensibilità.

Un effetto simile l’ha generato in me ieri mattina un articolo di Stefano Zecchi. “Bei tempi quando il famoso pezzo di carta dava il diritto ad entrare tra la gente che conta! Un lavoro importante, un bello stipendio: per molti era il biglietto da visita dell’emancipazione sociale”. Ma“era un altro mondo”. Oggi abbiamo un gran numero di laureati disoccupati, e “forse ancor più delusi e frustrati” di loro sono i genitori che desiderano per i loro figli un riscatto dalla povertà. Qual è la causa della disoccupazione dei giovani laureati, dunque? “È stato umiliato il lavoro degli artigiani, scrive Zecchi (filosofo, ndr.) producendo così intellettuali disoccupati (ed altri ahinoi occupati) a causa di “genitori dalle umili origini” e tuttavia “snob” (li definisce proprio così).

Ha una penna maliziosa Zecchi, per nulla preoccupata della disoccupazione, più interessata all’autocompiacimento e generalmente ansiosa di delegittimare il diritto all’istruzione presentandolo come un borghesismo illegittimo per le classi deboli. Utilizza la parola “snob” (ovvi i processi di proiezione contenuti nel linguaggio), richiamando le famiglie povere all’umiltà (che coraggio) e facendo appello per loro all’accettazione di un lavoro artigianale premoderno. Le sue argomentazioni sarebbero accettabili in un discorso dell’Europa del 1600 o pre-illuminista, prima ad esempio che Condorcet riconoscesse nell’istruzione pubblica un diritto universale necessario per portare l’umanità tutta oltre lo stato di minorità e di isolamento. Ma oggi questi discorsi appaiono anacronistici, gretti oppure demagogici. È barbaricamente demagogica l’opera del docente ordinario Zecchi, che sembra voler legittimare distrattamente una riforma che farà esattamente ciò che lui auspica, ovvero attribuire il diritto allo studio e al lavoro solamente a chi povero non è, riproducendo così un processo di inaridimento culturale di cui il suo articolo è già effetto e causa.

Zecchi non discute direttamente la riforma Gelmini, sottolinea solo l’inutilità del titolo di laurea (scollegando tale inutilità alla crisi del mercato del lavoro). Cita Sacconi e nomina il lavoro, ma non parla di neoliberismo, di banche d’investimento, di crisi degli stati sovrani, di esternalizzazione, di cassa integrazione. Si limita a dire che abbiamo “umiliato il lavoro artigianale” (lo rinobiliti lui, verrebbe da dire). In generale non offre nessuna soluzione ai drammi odierni, ma suggerisce di volere “più artigiani”, il che, leggerezza a parte, implica tra le righe che la saturazione del mercato non va contrastata con maggiori investimenti alla ricerca, ma va avvallata con una restrizione dell’offerta formativa sino a trasformare i giovani laureati qualificati e brillanti di oggi in lavoratori manuali.

Le parole di Zecchi sono leggere, e colpevole è la leggerezza del privilegio in tempi di crisi, come è pericolosa la sciatteria morale che essa ispira e che la ispira. Leggo Zecchi, e trovo la sua analisi deprecabile. È deprecabile perchè è priva di etica e di contenuti, è deprecabile per l’incuria verso un presente pieno di ferite, è deprecabile per l’atteggiamento paternalista ma privo di alcuna affettività paterna verso una generazione orfana seppur forte ma che ha già sufficienti problemi.

Forse è troppo chiedere un’analisi sensibile ad uomini egocentrici o autoritari, ma se è così ci basterebbe alle volte almeno un pò di generoso silenzio.

*Rete29Aprile

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